Un commento sull'articolo "Oscar Romero e il lungo silenzio del Vaticano" di Vito Mancuso, la Repubblica 21 maggio 2015

L'articolo di Vito Mancuso, pubblicato da Repubblica nel 2015, offre una riflessione lucida e incisiva sulla figura di Oscar Romero e sul lungo processo che ha portato alla sua beatificazione, avvenuta finalmente nel 2015, ben 35 anni dopo la sua morte. L'arcivescovo salvadoregno, assassinato mentre celebrava l'Eucaristia il 24 marzo 1980, è da tempo riconosciuto come martire della giustizia sociale, ma è solo recentemente (dal 2015) che la Chiesa cattolica romana ha deciso di accordargli il titolo di beato. Mancuso si interroga sulla ragione di questo ritardo e si concentra su un aspetto fondamentale: la politica che ha influenzato profondamente le decisioni ecclesiastiche e la difficoltà della Chiesa di Roma ad affrontare una figura che, pur avendo incarnato il messaggio cristiano, si è scontrata duramente con le gerarchie vaticane e con le forze politiche dominanti.

Fin dalle prime righe, l'articolo pone una domanda centrale: come mai la Chiesa di Roma ha impiegato ben 35 anni per beatificare Romero, quando altri personaggi, come Escrivá de Balaguer, fondatore dell'Opus Dei, hanno visto il processo accelerato in tempi record? Mancuso fa notare che la Chiesa, quando lo desidera, sa procedere rapidamente. La beatificazione di Giovanni Paolo II, per esempio, avvenne solo sei anni dopo la sua morte. La domanda, quindi, non è legata a un’inevitabile lentezza burocratica, ma alla natura politica e ideologica delle scelte vaticane.

Il cuore del ragionamento di Mancuso riguarda il contesto storico e politico in cui Oscar Romero operava. Nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, Romero inizialmente rappresentava una scelta conservatrice, destinata a moderare la Chiesa salvadoregna, troppo vicina ai movimenti di liberazione popolare. Tuttavia, una serie di eventi cruciali, tra cui l'assassinio del suo amico presbitero Rutilio Grande, scosse profondamente Romero e lo portò a una vera e propria "conversione" – o, come dice Mancuso, a una trasformazione radicale della sua visione. Romero, che inizialmente diffidava di ogni forma di liberazione sociale, divenne un fermo difensore dei poveri e degli emarginati, opponendosi con coraggio e determinazione alle ingiustizie politiche ed economiche del suo paese.

Questa radicale inversione di rotta, che lo spinse a denunciare apertamente le violenze perpetrate dallo stato e dai paramilitari, lo rese subito un bersaglio per le forze conservatrici, tanto politiche quanto ecclesiastiche. Mancuso osserva come Romero fosse già in conflitto con i poteri locali e con gran parte della gerarchia vaticana, che lo accusava di essere troppo schierato e di minacciare l'ordine istituzionale. L’articolo esplora inoltre il contrasto tra Romero e i suoi nemici interni alla Chiesa, tra cui il nunzio apostolico e molti cardinali che consideravano le sue posizioni troppo rischiose per la stabilità del potere ecclesiastico. La critica di Mancuso è chiara: la Chiesa non riusciva ad accettare una figura come Romero, che poneva la giustizia sociale al centro del suo ministero, ritenendo che questa visione fosse incompatibile con le politiche ufficiali e l’ordine ecclesiastico consolidato.

La figura di Romero, quindi, diventa un simbolo di una Chiesa che non si limita a predicare la salvezza dell'anima, ma che, secondo l'insegnamento di Gesù, deve necessariamente preoccuparsi della giustizia terrena. La sua morte, avvenuta per mano di un sicario degli squadroni della morte, è stata un martirio, ma per molti anni la Chiesa di Roma ha esitato a riconoscere questa verità. Mancuso suggerisce che questo ritardo non sia stato dovuto solo a questioni burocratiche, ma anche a motivi di potere. Romero, infatti, con il suo impegno sociale e politico, minacciava gli interessi delle forze economiche e militari dominanti, che avevano tutto l’interesse a non vederlo celebrato come martire della fede. Le alte sfere ecclesiastiche, che in molti casi avevano privilegiato l’equidistanza tra oppressori e oppressi, non erano pronte a supportare un uomo che metteva in discussione l’ordine stabilito.

Il teologo fa notare che la Chiesa di Roma, spesso, ha preferito tacere di fronte alle ingiustizie, temendo di compromettersi con il potere politico o economico. La sua critica va in particolare a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che non solo non accelerarono il processo di beatificazione, ma non vollero neppure esprimere un sostegno esplicito a Romero durante il loro pontificato. Mancuso sottolinea come la politica abbia influito pesantemente su queste scelte: durante gli anni in cui Romero divenne un simbolo internazionale della lotta per la giustizia, il Vaticano non voleva esporsi troppo, per paura delle ripercussioni politiche e diplomatiche.

Un altro aspetto fondamentale dell'articolo è l'accento sulla lotta tra la Chiesa di Roma e le forze di oppressione che Romero aveva coraggiosamente denunciato. Il vescovo salvadoregno, infatti, non si limitò a parlare, ma agì concretamente. Si oppose alla violenza, rifiutando la scorta che gli veniva offerta e sfidando apertamente le minacce. La sua ultima intervista, pochi giorni prima del suo assassinio, è emblematica. Rispondendo a un amico che gli consigliava di proteggersi, Romero disse: «Per aver cura di me dovrei andarmene dal mio paese». La sua consapevolezza di essere in pericolo non lo fece arretrare, ma gli diede la forza di perseverare nel suo impegno.

La riflessione di Mancuso conclude con una riflessione amara sul fatto che, nonostante il riconoscimento finale, la beatificazione di Romero arrivi troppo tardi, mentre la Chiesa avrebbe dovuto celebrarlo come modello di martirio già molto tempo prima. La sua morte, il suo sacrificio, e la sua fedeltà al Vangelo, che ha parlato della giustizia per i poveri e gli oppressi, sono finalmente riconosciuti, ma questo riconoscimento arriva con un ritardo che, per Mancuso, rivela le contraddizioni strutturali all’interno della Chiesa. La beatificazione di Romero, quindi, ha aperto una profonda riflessione sulla Chiesa di Roma e sulle sue scelte politiche. L'articolo invita il lettore a considerare come il Vaticano, nel corso della sua storia, abbia a volte tradito il messaggio evangelico per motivi di convenienza politica, e come la figura di Romero, pur celebrata ora, continui a essere un monito per una Chiesa chiamata a rimanere fedele ai suoi principi più profondi: la giustizia, la verità, e la solidarietà con i più poveri e gli emarginati.