Commento al Vangelo del giorno Gv 6,60-68
Nell’episodio narratoci dall’evangelista Giovanni, i discepoli sono “reduci” da un insegnamento fatto da Gesù su un argomento che molti teologi definirebbero “tosto”: il pane della vita (6:26-59), a cui si applicano interpretazioni che dividono l’ecumene cristiana, poichè non intendiamo allo stesso modo l’invito di Cristo a mangiare la sua carne e bere il suo sangue (vv.53-54). Ma questo è un inciso che fa riflettere sul perché molti dei discepoli ebbero una reazione negativa, inciso che responsabilizza anche noi che dovremmo leggere la Bibbia calandoci nei panni dei primi destinatari delle Scritture, evitando così di fare eisegesi, ovvero immettere le nostre idee nella comprensione della Parola.
Gesù ha rivelato qualcosa di molto importante circa la propria persona e messaggio, nel senso che tolse il velo [questo è il senso della parola Apokalupsis cf. Apocalisse 1:1] di convinzioni religiose parziali e fallaci che impediva a costoro di capire. Ma questa rivelazione crea disagio in non poche persone, dato che sentono parlare di “carne” del Maestro come vitale per il mondo, senza preoccuparsi andare oltre il comune sentire del termine, giudicato limitante perché appartiene alla sfera terrena. Ma Gesù intese dire che il suo insegnamento va recepito senza compromessi ed esitazioni come vero cibo per l’anima.
Chi erano queste persone che hanno abbandonato Gesù? Forse presi da iniziali facili entusiasmi hanno poi fatto un passo indietro perché seguire il Maestro non era più appagante: fino a quando diciamo che Gesù è alla nostra portata perché dice cose convenienti, va benissimo. Lo possiamo riscontrare anche nella religiosità “patinata” di chi fa del Cristianesimo uno stile di vita vincente, appagante. Ma quando c’è da fare sul serio, molti vanno in paranoia e si cercano maestri secondo le loro voglie (2 Timoteo 4:3). Da duemila e più anni va così, ma non scoraggiamoci dato che la Chiesa raccoglie ogni genere di persone (Matteo 13:47).
Ci soffermiamo sulla “sentenza” pronunciata da chi abbandonò il discepolato: il parlare di Gesù è duro e quindi impossibile da capire (6:60). Qui si presenta un falso problema: la predicazione cristiana non è un rompicapo ma una pietra d’inciampo (Romani 9:33). Ma c’è altro da dire. La vicenda che leggiamo nel IV Vangelo ci fa chiedere cosa possa significare l’aggettivo “duro”? può mai essere che Gesù abbia parlato in modo cifrato da spiazzare tante persone? Possiamo sapere che la parola greca skléros significa “violento”, “severo”, che non può essere “flessibile”. Giunti a questo punto dobbiamo precisare che al credente non spetta speculare su quale tono di voce abbia adoperato Gesù ma piuttosto ammettere che egli disse un insegnamento privo di scappatoie perché responsabilizza chi ascolta.
Poi vi è l’espressione “chi può intenderlo?” si tratta forse di tecnicismi che solo gli addetti a lavori come i predicatori possono capire? No, affatto.
La frase in lingua greca esprime un problema di incapacità [la mancanza di potere, in greco dunamai] di ascoltare con profitto [akouó significa comprendere udendo]. Ciò si ricollega all’esortazione ad agire nella Parola, senza limitarsi a udirla (Giacomo 2:22), poiché il Vangelo ci invita all’azione anziché alla contemplazione (Giovanni 13:17). Ricordiamoci quando Gesù ci dice: “chi ha orecchi per intendere intenda!” (Marco 4:9; Luca 8:8; 14:35) un po' come diciamo ancora oggi: “chi vuol capire, capisca!”.
Parlare di Cristo comporta il parlare come Cristo, e questo non è realizzabile se trascuriamo di leggere i Vangeli. Ci viene facile pensare che Gesù abbia sempre parlato soavemente, senza mai ferire nessuno dei suoi interlocutori; Basterebbe ricordare quante volte Egli abbia “demolito” i ragionamenti dei suoi avversari religiosi, i farisei (Matteo 23:13-15,23,25,27,29) e abbia redarguito i suoi discepoli (Matteo 16:7-8,23; Marco 8:33). Se ci fermassimo qui, la comunicazione del Vangelo sarebbe assai frustrante, e non fruttuoso. Il carattere di Gesù che emerge da una lettura seria degli Evangeli è quello del Maestro mansueto ed umile di cuore (Matteo 11:29) che è venuto come colui che (Luca 22:27), e tutto questo esclude l’incapacità di insegnare con amore. Qui è doveroso fare un inciso: condurre gli altri alla verità dell’Evangelo comporta chiarezza e non diplomazia: il parlare schietto può esprimere la carità fraterna (Proverbi 27:6). Gesù non predicava “col coltello tra i denti”, quindi perché dobbiamo farlo noi? Egli ci insegna a ministrare la Parola che è come una spada giusta e ed efficace (Ebrei 4:12) senza ricorrere ai “fendenti” del nostro pensiero religioso.
Ma il problema non consiste soltanto in chi usa la Parola per danneggiare: ciò che abbiamo condiviso oggi potrà aiutare dei predicatori a non essere “predic…attori”, rinunciando a recitare come personaggi da pulpito che cercano consensi ed essere invece servitori di Dio che vogliono piacere a Lui e non alle persone (Atti 4:19; Galati 1:10).
Ci deve essere coerenza di vita nuova [“predica bene chi vive bene” disse Miguel de Cervantes] in chi parla di Cristo, altrimenti saremmo “utili” come un fuoco dipinto su una parete, incapaci di illuminare le vite e scaldare i cuori delle persone.
La Chiesa che predica è viva, se annuncia Cristo che è la Vita (Giovanni 11:25; 14:6).
(Questo contenuto è di proprietà della Chiesa Vetero-Cattolica Riformata)