IV DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C
Commento di p. Franco Barbero al Vangelo: Lc 15,11-32 - Quando si dice Dio Padre
In queste settimane mediteremo dei testi – come succede del resto un po’ tutto l’anno – in cui Dio viene “nominato” con la metafora del “Padre”. Le teologie femministe in particolare ci hanno aiutato, ormai da molti anni, a riflettere con maggior consapevolezza sul fatto che Dio è tanto padre quanto madre; anzi, Dio non è una realtà sessuata. L’osservazione non è né ovvia, né banale, né scontata, perché spesso nella tradizione cristiana l’accezione maschile di Dio ha favorito la deviazione di un immaginario maschilista e patriarcale, che poi ha invaso la teologia e le strutture delle chiese cristiane, favorendo l’emarginazione delle donne. Dio è stato vestito di panni maschili, compiendo così un grave travisamento teologico e culturale, che ha poi registrato spesso gravi ricadute nei rapporti uomo-donna. Qui Dio Padre è usato con valenze completamente diverse. Sulla bocca di Gesù è cifra dell’amore accogliente.
Ho davanti a me una montagna di commentari biblici in cui, con competenza e passione, si legge e si medita su questa straordinaria parabola. Gli studiosi non sono nemmeno d’accordo sul “titolo”. Parabola del “Padre e i figli” oppure parabola del “Padre misericordioso” o del “figliol prodigo”? Ma questa divergenza è tutto sommato irrilevante. Infatti si tratta di una pagina talmente “straripante” di significati che diventa quasi impossibile darle un “titolo” capace di cogliere la punta della parabola. Per quel che riguarda il contenuto essa invece è unitaria; nessun singolo elemento può essere eliminato senza pregiudicare l’intera struttura narrativa della parabola.
Mi servo di due pagine che ritengo straordinariamente espressive del grande esegeta di Zurigo (HANS WEDER, Metafore del regno, Paideia Editrice, pagg. 304-305).
“Un primo momento dell’interpretazione deve consistere nell’esaminare la narrazione in se stessa. Dopo un breve antefatto (vv. 11 e s.) che illustra la situazione di partenza e mette in movimento l’azione con la divisione dei beni paterni, segue la prima parte (vv. 13-24), che narra la sorte del figlio minore. La sua degradazione (vv. 13-16) inizia con la sua emigrazione in un paese lontano, dove egli perde il patrimonio; la degradazione prosegue: il figlio si trova nel bisogno; inoltre perde la sua purezza religiosa ebraica, quando è costretto a pascolare i porci di un pagano. La degradazione raggiunge il culmine, quando il figlio – che ormai lotta per la pura e semplice sopravvivenza – non riesce a saziare la sua fame neanche con il cibo dei maiali. A questo punto la narrazione arriva alla peripezia cioè alla svolta che cambia il corso dell’azione (vv. 17-19) nella quale il figlio riflette razionalmente sulla sua situazione mettendola a confronto con quella dei salariati di suo padre. Il confronto gli rivela che la cosa più ovvia è tornare a casa e chiedere al padre di essere assunto come salariato. Il figlio riconosce che non ha più alcun diritto di essere chiamato figlio, perché ha peccato contro il cielo e contro il padre.
Gli eventi al suo ritorno si svolgono in maniera inaspettata (vv. 20-24): il padre previene la sua confessione di colpevolezza, abbracciando e baciando il figlio; in questo modo il padre annulla il passato del figlio, gli ridà la condizione di figlio e fa preparare una festa. Il figlio non riesce neppure a formulare la richiesta di essere assunto come salariato, poiché è già divenuto di nuovo il figlio del padrone e la festa non consente rinvii.
Nella seconda parte (vv. 25-32) è in primo piano il figlio maggiore: ritornando dai campi gli arriva l’eco della musica e delle danze; irritato si informa sull’accaduto; il resoconto del servo è formulato in modo tale da suggerire l’ovvietà del comportamento paterno. Il figlio maggiore non riesce però a vedere la questione con gli occhi del padre; adirato rimane fuori. Il padre viene a pregarlo. Ma il figlio resta aggrappato alla sua giustizia; non può accettare il minore come fratello (perciò dice “questo tuo figlio”, v. 30). Il padre ascolta i suoi argomenti e li confuta; ancora una volta prega il figlio di partecipare alla festa, affinché nella festa comune ridiventi figlio e fratello.
La figura centrale della narrazione (anche se non è sempre lui il protagonista) è il padre. È lui che conferisce unità alla vicenda dell’uno e dell’altro figlio; il suo amore incontenibile lo spinge a correre incontro al figlio minore e ad invitare il maggiore a lasciar da parte la sua giustizia ed a far festa assieme. L’obiettivo fondamentale di questo amore è la ricomposizione della totalità”.
Questo Padre, che nella parabola rimanda chiaramente a Dio, non si limita ad un amore generico ed indifferenziato. Non si tratta di un amore di buoni sentimenti e di facili emozioni. Il Padre orienta il Suo amore a persone precise, in contesti precisi, in modo concreto, da cuore a cuore. Così la parabola ci parla, allude, tenta di esprimere il “come” dell’amore di Dio. Al figlio che era partito da casa, il Padre accorda un perdono che trionfa sul suo passato. Egli viene così introdotto in un presente nuovo. Ma il fratello maggiore si è anche lui perso dentro il suo perbenismo, dentro la sua osservanza. Si tratta di due fratelli entrambi “perduti”, anche se in modi diversi. Dio, nelle vesti di questo Padre, vuole riunirli ambedue nella festa dell’amore. Questo succede quando si accoglie il regno di Dio, il Suo amore trasformante: il figlio minore si fa più “vicino a se stesso” riscoprendosi figlio e il fratello maggiore si fa più vicino all’altro uomo riscoprendolo fratello. La “festa dell’amore”, cioè il coinvolgimento nella strada di Dio, mette ognuno dei fratelli in un cammino e in un orizzonte nuovo. La conversione è cammino di tutti e due, di ciascuno/a di noi.
Forse già Luca voleva ricordare alla sua comunità che le facili categorizzazioni sono false: la comunità non è divisibile come un pezzo di parmigiano in buoni e cattivi. L’unità sostanziale di una comunità cristiana consiste nel prendere coscienza che il Padre ci cerca, ci accoglie, ci invita, ci avvolge tutti/e con il Suo amore e nessuno/a di noi può pensare che la conversione sia faccenda che riguarda esclusivamente altri. Forse Luca, buon conoscitore della sua comunità, voleva anche offrire ai fratelli e alle sorelle uno stimolo a fare i conti con questo amore straripante di Dio per “provocarli” a guardare oltre i calcoli, le meschinerie o le arroganze che spesso segnano i nostri rapporti quotidiani.
La teologa Sallie McFague in un volume scritto molti anni fa edito in Italia solo nel '98 (Modelli di Dio, Claudiana) scrive “La parabola ha inizio nel mondo ordinario, con i suoi modelli e le sue attese convenzionali, ma nel corso della “storia” viene introdotta una prospettiva radicalmente diversa che disorienta l’ascoltatore e… viene creata una tensione che sfocia in un riorientamento, una ridefinizione della vita… La parabola costituisce un attacco contro le convenzioni accettate che la gente costruisce per proprio conforto e sicurezza. La parabola è un racconto inteso a invertire e sovvertire queste strutture culturali e sociali e a suggerire che la via del regno di Dio non è quella del mondo. Nelle parabole di Gesù vediamo un figlio maggiore che non ottiene quel che merita e un figlio minore che ottiene quel che non merita" (ivi, pag. 79).
Il nostro orientamento perbenista e logico subisce un radicale disorientamento e poi… compare all’orizzonte un riorientamento che comporta una nuova visione e impostazione delle relazioni e della vita. Insomma, seguire Gesù significa accettare lo sconcerto di un disorientamento che fa crollare il “modello” vincente in questa società e accettare di essere “riorientati” e accompagnati dalla mano invisibile di Dio: un programma che passa attraverso la destabilizzazione di tutto il nostro “palazzo”. Capisco allora perché la curia romana rimane aggrappata alle vecchie istituzioni prive di ogni spessore di fede. Difendono il castello del potere e dei dogmi perché non riescono ad accettare “il dono dello smarrimento”, il disorientamento necessario per entrare in un nuovo cammino: chi non si tuffa nelle acque non arriva all’altra riva. La “terraferma” delle nostre sicurezze spesso è la nostra prigione, la nostra rovina. Se non ti muovi di casa perché hai l’ossessione di dover custodire i tuoi presunti tesori, puoi morire di fame accanto ad un idolo o anche accanto ad un diamante.
(Questo contenuto è di proprietà di p. Franco Barbero)